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Vengono dal passato

A cura di Gabriele Agostini – Foto di Linda de Nobili

Vengono dal passato i volti di uomini donne e bambini delle foto di Linda de’ Nobili.

Vengono dal passato e, come le anime del purgatorio, abitano tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.

Vengono dal passato e forse ci giudicano per come siamo cambiati;

Per come abbiamo dimenticato di essere stati.

La fotografia aiuta gli uomini a vivere e a morire, a non dimenticare, a segnare il tempo.

Linda è una fotografa della vita quotidiana e quindi della poesia.

Linda produce foto immodificabili nell’età; conservano il tempo e lo riproducono negandone lo scorrimento, come il ritratto di Dorian Gray.

Queste foto ci fanno reagire, ci dicono qualcosa di noi che guardiamo, ci fanno immaginare il tempo passato, i luoghi e le vite che in esso si sono svolte.

Sono immagini pacate, velate di malinconia che racchiudono l’incanto del tempo sospeso, dei gesti accennati.

Pose e composizioni abitano uno spazio pittorico, teatrale, mantenendo un costante senso della scena, della recita, della storia.

Le persone ritratte sanno non farsi cogliere di sorpresa, nella spontaneità casuale di un momento.

Le persone ritratte sembra abbiano avuto il tempo di riflettere e di conformarsi alla regia occulta della fotografa che li vuole liberi di scegliersi la maschera da indossare per la recita della commedia della vita.

Come non pensare alle riflessioni di Antonino Pareggi, il protagonista del racconto di Italo Calvino l’avventura di un fotografo: “… la maschera, essendo innanzi tutto un prodotto sociale, storico, contiene più verità d’ogni immagine che si pretende vera, porta con se una quantità di significati che si riveleranno poco a poco …”

Linda vuole trovare l’essenza delle persone, vuole comprenderne le peculiarità, in tal senso ha bisogno di entrare in contatto con loro, anche o forse soprattutto da un punto di vista spirituale.

Le persone sono allora ritratte insieme alle poche cose che l’accompagnano.

È un combattimento estenuante, fatto di silenzi, di attenzioni e momenti sofferti riuscire a svelare l’interiorità.

Questa è sempre più sacrificata sull’altare di una presunta modernità dell’agire politico.

La lotta per il diritto ad una casa, le occupazioni, gli sgomberi forzati, la resistenza alla precarietà … obbligano il proprio corpo ad un’esposizione pubblica.

Gesti e movenze che si devono raccontare sotto i riflettori.

Linda sceglie invece di registrare atti che non costituiscono l’evento pubblico, ma frammenti quotidiani di un insieme complesso.

In direzione ostinata e contraria, ossessivamente con tutte le sue forze Linda insegue le persone per coglierne l’unicità, l’umanità, la debolezza, l’amore.

Scrive Shirley Jackson che nessuno può resistere senza danno all’esposizione prolungata alla realtà, e che è per questa ragione che anche le allodole e le locuste sognano.

 

La fotografia lo sanno tutti, ormai, non ha niente a che vedere con la realtà.

Al contrario, essa serve semmai a difenderci, a modo suo, dalla realtà: isolandone e congelandone un frammento infinitesimo ci parla non di quel che ha conservato, prelevato, ma di tutto quello che ne è rimasto fuori, di tutto quello che è andato perso: di ciò che non c’è mai stato, e di ciò che vorremmo che ci fosse.

Se le condizioni, l’oggetto e il fotografo sono quelli giusti, la fotografia ci invita a immaginare, qualche volta anche a sognare.

È quello che è accaduto con queste foto: una combinazione rara di circostanze, che ha la capacità di parlare soprattutto a noi di noi stessi.

Come non riflettere sulla possibilità di capovolgimento segnico che la contemporaneità sempre più sembra capace di mettere in scena.

Vecchi televisori poggiati su un altare, orientati come un officiante verso i fedeli.

Sembra ci si prepari ad una celebrazione liturgica eterodiretta.

Dal tubo catodico però non escono voci, ne immagini scintillanti, ne sogni a buon mercato o sorrisi tranquillizzanti.

Non ci sono colori.

Dal tubo catodico solo il silenzio assordante.

Non escono colori.

Solo la specchiatura, la riflessione delle navate di una chiesa vuota, fredda, occupata solo da tende che raccontano di un tentativo di ricerca di intimità, di conforto, di casa, di normalità, di vita sospesa che resta in attesa.

Come non riflettere sul tavolo apparecchiato sotto le tracce delle tavole lignee che raffiguravano le stazioni della Via della Croce o Via Dolorosa?

E che dire di quella Maddalena aggrappata alle sbarre, imprigionata, in dolorosa attesa del ritorno di Cristo salito su quelle scale per subire l’interrogatorio di Ponzio Pilato?

Noi tutti, noi ultimi già conosciamo l’esito.

Ma torniamo in chiesa, tra i sofferenti, tra i vinti di sempre.

Cristo è stato deposto dalla croce.

Sul muro alle spalle del tubo catodico ne vediamo le tracce.

Un uomo e una donna aspettano e si tengono abbracciati.

Sui loro volti appare la certezza della resurrezione, appare un sorriso.

Un bambino attende.

Dietro di lui solo una vecchia lapide e fagotti informi.

Contengono poche cose essenziali, parvenze e illusioni di averi di una vita ancora da vivere.

In questa attesa carica di speranza si viene trapassati dallo sguardo di una bambina che con fierezza ci viene incontro.

Nel suo sguardo non c’è posto per la rassegnazione.

Il suo è uno sguardo di sfida, di forza, di certezza di vittoria e di riscatto.

È lo sguardo di chi sa che non deve e non vuole arrendersi mai.

È l’eterno ritorno della Resurrezione dell’uomo.

È lo sguardo dei giusti di sempre.

Gabriele Agostini