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AttraversaMenti

La consegna all’immortalità attraverso l’arte “ è la sola vendetta contro il tempo che dura nel tempo.”

Harold Bloom

Lo sguardo fotografico possiede una sorta di nonchalance che cattura l’apparizione degli oggetti

senza essere intrusivo.

Non cerca di provare o di analizzare la realtà.

Lo sguardo fotografico, invece, si applica – letteralmente – sulla superficie delle cose per illustrare la sua apparizione sotto veste di frammenti.

È una rivelazione molto breve, seguita immediatamente dalla sparizione degli oggetti.”

Jean Baudrillard

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Attraversare se stessi, osservare il proprio “giardino segreto” abitato da dubbi, sogni, mostri notturni, vizzi, desideri.

Proviamo a immaginare nuovi mondi e rappresentare la “malattia o la gioia di vivere.”

Ha scritto Man Ray: “ Fotograferei un sogno piuttosto che un oggetto, si può trasformare una fotografia in uno specchio che catturi i propri sogni, i propri desideri.”

Saper guardare, voler guardare comporta sempre qualche rischio.

È un appuntamento al buio con la visione.

Il buio è necessario per evitare inutili legami, reminiscenze fuorvianti.

Bisogna riattivare un tasso di visualità inquinato e compromesso dagli eccessi della società delle immagini.

Dobbiamo condurre il nostro sguardo in una dimensione dell’insolito, attraversare brevi rivelazioni

che cambiano del tutto la nostra percezione primaria dell’immagine.

La realtà è insufficiente o scontata o addirittura banale e a volte insopportabile?

Dove trovare sollievo?

Dove cercare il luogo d’incontro delle nostre amarezze?

Come soddisfare il desiderio di essere unici in una società massificata?

Spingere la riflessione e l’interpretazione verso realtà altre, verso immagini lontane dal realismo descrittivo.

Immagini che vivono in una storia senza un inizio e una fine, una storia tutta racchiusa

nell’attimo della propria apparizione.

Chi vede queste immagini finisce per incamminarsi in un viaggio immerso in una specie di atassia simbolica e più cerca di cingere le forme, afferrare gli orpelli, più queste sfuggono.

La memoria perde ogni funzione di descrizione, registra solo la sensazione.

Nella cultura metropolitana la città assume un ruolo attivo e determinante nella manipolazione-trasformazione della coscienza individuale.

Georg Simmel nel 1900 aveva colto il ruolo che la grande città (Grossradt) assume nella formazione

del carattere precipuo del cittadino metropolitano, eliminando poco alla volta, dalla sua coscienza il

sentimento (Genut) con il sopravvento dell’intellettualizzazione (Verstand) di ogni pulsione affettivo-emotiva.

Un procedimento, questo, reso possibile dalla continua intensificazione della vita nervosa (Steingrung des Nervvenlebens).

Questo processo attivo di spezzettamento e smantellamento dell’Io, crea un uomo che si definisce

tramite le immagini che il territorio circostante gli rimanda.

La coscienza individuale attribuisce al tessuto metropolitano il ruolo di inerte fondale, scenario contro il quale si stagliano i conflitti dell’Io moderno immerso nelle contraddizioni metropolitane di natura economica, sociale, politica, culturale, percettiva.

La metropoli per le sue caratteristiche strutturali (energico movimento, rapida elaborazione di immagini violente, rumori, stress, concentrazioni di uomini, mezzi, case, attività frenetiche, ritmo sostenuto) è artefice di propagazione di continui shock nella folla che la attraversa; lo shock rimbalza dalla città alla folla e da questa all’individuo sperduto tra migliaia di altri che non conosce, che non riconosce; la violenza è tale da far acquistare a questo processo un ruolo determinante nella logorazione lenta e inesorabile della sensibilità individuale, trasformando il cittadino in un blasé, cinico, indifferente alle umani sofferenze.

La metropoli è il luogo dove si rivela il dominio incontrastato della semiocrazia.

È il luogo dove tutti i media, appaiono al loro massimo registro di efficienza.

In questa realtà da un lato i linguaggi urbani specialisti si trasformano in camera a tenuta stagna, tanto isolati gli uni dagli altri da diventare incomunicabili tra loro; dall’altro quelli “comuni” attraverso la ridondanza delle immagini e il loro ripetersi ossessivo divengono organizzazioni di segni che, poco alla volta, non è più possibile seguire; si accavallano, si compenetrano, si confondono e si aggrovigliano come i fili spezzati di una matassa senza fine.

La conseguenza sempre più evidente è che l’universo dei segni si sostituisce all’universo reale.

Il mondo reale con la sua complessità finisce, in questo modo, per allontanarsi indefinitivamente ed

è sostituito dall’iperealtà artificiale, dalla ripetizione coatta, dalla sovrabbondanza, dall’iperimmagine.

Il futuro e il passato non hanno più senso.

Dall’iperrealismo delle immagini, la città diventa immaginaria, fatta cioè d’immagini, luogo nel quale trionfa l’unico discorso possibile: quello dei segni che parlano di sè.

Assistiamo a quello che Walter Benjamin in Erfahrung und Arnut aveva intuito: che il patrimonio

culturale, la capacità di lettura della sedimentazione dello stesso non ha più valore se non si congiunge all’esperienza individuale.

Esperienza che viene negata dalla frenesia, dal guazzabuglio di immagini, di stili, di segni, di chincaglierie visive che nascondono un’orribile vacuità del genere umano, una spaventosa povertà culturale, quella che molti studiosi indicano come il deserto dei sentimenti e dell’intelligenza.

Il guazzabuglio di immagini è diventato sistema di vita; l’iniziale alienazione del cittadino metropolitano si è trasformata nella agnostica ottusa cecità dell’animale post-metropolitano.

L’intero universo dei significanti senza significato ha un solo nome, simulazione: di cultura, di significati, di stili, di razionalità, di progresso, di tecniche, di passato, di luci, di ombre, di umanità.

L’uomo post-moderno in bilico tra banalità volgare e follia.

Alla Babele dei segni, delle immagini per il loro carattere artificiale, rimane estraneo qualsiasi significato se non quello di costruire se stesso ponendosi come un universo organizzato per la liquidazione definitiva di qualsiasi discorso critico sulla realtà.

Attraversamenti metropolitani si pone come necessità di sottolineare la forte pregnanza reale che

l’irreale onirico, il rimosso assume nel quotidiano, dall’altro, quello di mettere in evidenza con estrema energia il carattere irreale che la realtà assume.

Avremmo potuto intitolare la raccolta di immagini che compongono questo libro “Alla ricerca delle vertigini percettive”.

Scrive Pino Bertelli: “Il conflitto è il padre di tutte le cose (Eraclito, diceva) e la realtà è generata dalla tensione tra i contrari.

L’apparenza non è la verità, ma l’ombra del patibolo che la sostiene.

C’è più verità in una valigia piena di sogni che in tutti i santi del cielo”.

Una fotografia dell’imperfezione dunque, è una costruzione di situazioni o una spinta di verità o di

disaffezione della realtà codificata che coglie al di là (o al di qua) del momento scippato alla storia, un frammento d’esistenza perduta o ritrovata.

È una trasformazione interiore e un viaggio verso il bene autentico della bellezza che sconfigge il brutto, l’insolenza e la violenza della civile barbarie.

E, come sappiamo dagli antichi, il vero bene è già in sé un atto morale e dentro un’etica delle passioni estreme sconfigge il dominio dell’ignoranza.

La bellezza della fotografia non addomestica ai linguaggi dominanti è quella che contravviene e si

oppone all’esposizione della banalità del male.

Ogni foto è un autoritratto.

È la scoperta di se stessi per mezzo della fotocamera e discorso sul mondo.

Fare una fotografia è un modo per riscrivere la realtà, per toccare qualcuno che è entrato nel nostro sguardo e ha donato la sua anima alle nostre carezze.

La fotografia in forma di poesia, non registra la realtà, la interpreta.

La fotografia della bellezza non corteggia la morte, anzi denuncia la cultura del disastro della quale è icona adorante e adorata. L’estetica del terrore poggia sull’ordinaria amministrazione di un esistente banalizzato.

Il ritorno alla ragione significa ritrovare l’innocenza perduta e lavorare affinché le utopie si trasformino in topie, ovvero in cammini possibili.

La fotografia della flânerie contiene smarrimento, libertà di vedere e reinterpretare l’infamia del mondo.

Comprendere l’istante significa volare nell’immaginario, perché la rappresentazione della realtà è sempre incompleta.

Questa fotografia si muove tra la disobbedienza e libertà.

Il flâneur è impavido, scanzonato, impertinente, è un aristocratico dell’anarchia, un analfabeta

della normalità, brucia la solitudine in uno sguardo incrociato con il passato e la schiuma ingenerosa del divenire.

Non evoca nulla, non conosce differenza tra fotografia e lacrime.

Il flâneur, come scrisse Charles Baudelaire, è “uno che porta a guinzaglio le tartarughe”.

Friedrich Nietzche, il dinamitardo di tutte le morali, insegna che soltanto la pratica della filosofia

dionisiaca, aurorale o dell’Eu-topia di Zarathustra… può devalorizzare le forme di nichilismo religioso, ideologico o economico e mostrare che le radici della storia concreta sono – al di là del bene e del male – nell’anima dell’uomo, nelle sue mani.

L’amore per la libertà e per la bellezza è un cammino, un segno, un sogno… la fotografia flaneuristica rivendica l’utopia della diversità e dell’opposizione.

Gabriele Agostini